Ora ho tutto il tempo per farlo. Seduto in poltrona dalla mattina alla sera, rispolvero il tempo passato con un interesse più vivo di quanto mi appassioni l’attualità. Non riesco più a vedere la televisione, mi dà addirittura fastidio. E’ così che vecchi diari alla mano, mi aiutano a ricordare. Non mi riesce più di scrivere articoli che abbiano un pensiero degno di un minimo di coerenza interna e perciò vi propongo due pagine estratte dal mio diario. Niente di particolare, se non la volontà di sentirvi ancora e sempre vicini. “Ho sempre pensato di diventare uno scrittore. La realtà invece mi appare nella sua squallida veste e, mio malgrado, riesco a vedermi. Dire “pover’uomo” ad uno come me, è dire troppo. Non voglio fare il tragico, non ne ho la stoffa. Caso mai potrò fare il poeta, magari nel senso più consumato che si potrà dare a questa parola, ma il tragico no. Perciò quando dico “pover’uomo”, dico una realtà che non mi compete completamente. Un “pover’uomo” ha almeno due cose importanti, ossia il fatto di essere “uomo” e di essere “povero”. Io non sono né l’una né l’altra cosa. L’uomo, infatti, è definito “razionale” e dov’è, buon Dio, la razionalità in me? Io che mi commuovo per un tramonto. Io che pur amando la solitudine mi affogo negli altri. Io che credo ancora nella bontà. No, questo non significa affatto essere razionali! E poi la povertà? Dove ho io la povertà se sono capace, con la fantasia, di creare intorno a me montagne di pietre preziose?
Ovunque mi guardi, non faccio altro che trasportare dentro me stesso le cose più belle. Le cose brutte le noto, posso anche scriverle, ma non le porto dentro, non le faccio mie. Ora può considerarsi povero un uomo che fa sue centinaia di sensazioni o di immagini al giorno? Di sicuro non sono povero! A volte mi immagino di essere un robot che accumula tutto ciò che vede, ma che non ha la capacità di tornare ad esternarlo. Quante emozioni si sono accavallate o si rincorrono nella mia giornata! Ma a che pro tanto sciupio? Quello che riesco a fare, tutt’al più, è di farle ritornare alla mente quando voglio. Ecco, sì, sono un robot che capta le cose dall’esterno e poi egoisticamente se le riproietta per sé solo nel suo interno.” “Sono uscito solo, portando con me l’intero universo. Ero ripieno di sole, di calore e di suoni, poi improvvisamente ho avuto voglia di fermarmi così, per due minuti. Vedevo la gente passarmi accanto una dopo l’altra, chi da una parte, chi da un’altra. Tutto il mio universo era sparito nel piccolo particolare di uno tra gli altri.
Mi sono sentito una molecola umana nella giungla della città, un topo, stranamente vestito, che guarda ed è guardato come un essere strano, né amato, né odiato. Le due torri della Garisenda e degli Asinelli sembravano appartenere ad una città tutta particolare ed io di questa città particolare un grosso topo dell’età barocca svolazzante e nello stesso tempo immobile, quasi non più abituato a questo caotico guazzabuglio di colori in questa serata di primavera. Ho scoperto che Bologna, come tante, troppe città, non ha una strada nel senso che si attribuisce a questa parola. Qui ci sono soltanto vie affollate, lastricate di mattoni millenari o di cemento e catrame ancora fresco.
Sono stato fermo i miei due minuti contati su un lastrone che avrebbe potuto raccontarmi la storia di altre molecole umane a cui ha porto la sua durezza e la sua indifferenza. Non mi ha raccontato la storia della sua costruzione né di cocchi signorili, né di passi affrettati dei giovani, né degli stessi passi ormai vecchi. Un mattone che parla, ci sarebbe da ridere!
La folla, oggi, come ieri, come domani, passa veloce e noi, purtroppo con lei, ci lasciamo trascinare. In questa corsa immane ci dimentichiamo di fermarci, magari per due soli minuti, e guardandoci gli uni con gli altri negli occhi. La folla non si guarda, si intravede, quasi che al posto degli occhi avesse dei piccoli radar curiosi. Gli occhi non incontrano altri occhi, né visi altri visi, né tanto meno un cuore un altro cuore. Perché gli uomini non si rendono conto dell’importanza di un incontro? Che bello se altri, come me oggi, si fossero fermati e avessero sostato lì, su quei lastroni e quel cemento e fossero rimasti con me e come me lì, dimentichi di tutto, facendo di un fuggevole attimo un attimo eterno! Mentre scrivo lo stesso lastrone sarà solcato da una coppia di amanti o dal passo stanco di un deluso”.
P. Ennio Staid
Articolo e foto tratte da “Lettera agli amici della Fraternità Agognate” – Anno 22° n. 111 Ottobre 2021