In questo mio prossimo ottantanovesimo Natale posso aggiungermi ai poveri pastori con nessun dono da portare al Bambino appena nato e senza la presunzione di avere qualcosa, neppure una… ricotta da donargli. Ciò che potrei portare a Betlemme è un carico di peccati accumulati in tutti questi anni. Tra i tanti non doni ve ne è uno che pesa più degli altri. Quando decisi di diventare domenicano, ho promesso di allontanarlo per sempre dalla mia vita: il denaro. Ho avuto la presunzione, impegnandomi con Dio e con i fratelli, di vivere in pieno la povertà, ma solo la malattia e la vecchiaia mi hanno mostrato cosa significhi essere davvero povero.
In tutti questi anni non mi è mancato nulla, ho avuto molto di più di quanto avevo da bambino. Una stanza tutta per me, spesso riscaldata in inverno; ho mangiato sempre almeno tre volte al giorno, la biancheria sempre pulita, una biblioteca a mia disposizione e da presbitero anche un’auto e qualche centinaio, forse più, di amici che mi hanno arricchito con la stima e l’amore.
Gesù ha detto: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli”. Così mi sono consolato dandomi del povero in spirito. Ho per anni creduto che il Regno dei cieli fosse tra
le nubi (forse tra Giove e Saturno o in qualche altra galassia) ed ho vissuto come meglio potevo tutti questi anni sentendomi povero… in spirito. Ho predicato che la povertà evangelica è soprattutto il distacco non solo dal denaro, ma anche dal potere, dall’ambizione, da tutto. Un vero povero non sogna potere, non ha ambizioni di sorta, né desidera un conto in banca. I milioni di poveri che sono in questo nostro tempo desiderano solo poter mangiare e, se malati, essere curati.
In valori assoluti, in condizione di povertà estrema vivono 902 milioni di persone. Per rendere l’idea, basti dire che si tratta di circa quindici volte la popolazione italiana.
La frase di Gesù che dice “chi perde la propria vita la troverà”, quella è veramente la povertà: essere liberi da tutto. Perdere la vita come l’ha persa Lui per amore di tutta l’umanità. Un musulmano, un cinese, un uomo che non ha mai conosciuto Gesù e non conosce le Beatitudini, ma perde la sua vita al servizio dei fratelli possiede il Regno. Un crocefisso che muore perché condannato come bestemmiatore e terrorista possiede, è nel Regno.
Papa Francesco ha detto a Rio De Janeiro: “Ci fa sempre molto bene leggere e meditare le Beatitudini! Gesù le ha proclamate nella sua prima grande predicazione, sulla riva del lago di Galilea. C’era tanta folla e Lui salì sulla collina, per ammaestrare i suoi discepoli, perciò quella predica viene chiamata “discorso della montagna”. Nella Bibbia, il monte è visto come luogo dove Dio si rivela, e Gesù che predica sulla collina si presenta come maestro divino, come nuovo Mosè. E comunica la via della vita, quella via che Lui stesso percorre, anzi, che Lui stesso è, e
la propone come via della vera felicità. In tutta la sua vita, dalla nascita nella grotta di Betlemme fino alla morte in croce e alla risurrezione, Gesù ha incarnato le Beatitudini. Tutte le promesse del Regno di Dio si sono compiute in Lui.
Nel proclamare le Beatitudini Gesù ci invita a seguirlo, a percorrere con Lui la via dell’amore, la sola che conduce alla vita eterna. Non è una strada facile, ma il Signore ci assicura la sua grazia e non ci lascia mai soli. Povertà, afflizioni, umiliazioni, lotta per la giustizia, fatiche della conversione quotidiana, combattimenti per
vivere la chiamata alla santità, persecuzioni e tante altre sfide sono presenti nella nostra vita. Ma se apriamo la porta a Gesù, se lasciamo che Lui sia dentro la nostra storia, se condividiamo con Lui le gioie e i dolori, sperimenteremo una pace e una gioia che solo Dio, amore infinito, può dare. Le Beatitudini di Gesù sono portatrici di una novità rivoluzionaria, di un modello di felicità opposto a quello che di solito viene comunicato dai media, dal pensiero dominante”.
L’aggettivo greco ptochós (povero) non ha un significato soltanto materiale, ma vuol dire “mendicante”. Va legato al concetto ebraico di anawim, i “poveri di Jaweh”, che evoca umiltà, consapevolezza dei propri limiti, della propria condizione esistenziale di povertà. Gli anawim si fi dano del Signore, sanno di dipendere da Lui. In questo senso un vecchio è doppiamente anawim perché deve dipendere non solo dal buon Dio ma anche dai fratelli. Perciò da vecchio, il presepio che tanto mi dava gioia, mi fa stringere il cuore e mi sento colpevole di non aver spiegato e vissuto gli insegnamenti di quel Gesù collaborando a farlo diventare una delle tante divinità che piacciono alla nostra gente. Tanti, troppi bambini non hanno neppure una stalla e non vi sono Re che portano doni mentre le nostre città cristiane, facendo arricchire i venditori di doni , cancelleranno definitivamente la stalla di Betlemme.
Che auguri darvi? Lo Spirito Santo ponga il piccolo Gesù anche nelle nostre poverissime stalle.
Fr. Ennio Staid O.P.
Tratto da Lettera agli Amici della Fraternità Agognate – Anno 19° n. 97 dicembre 2018